Dieci anni (1883-1893) di lettere del Vate alla moglie Maria Hardouin di Gallese raccolte e ordinate in un volume curato da Cecilia Gibellini, docente di Lettere all’Università del Piemonte Orientale
Di Gabriele D’Annunzio e dei rapporti con le molte donne che amò restano fotografie, diari, biglietti, abiti, oggetti, aneddoti più o meno veritieri. Ma fra i molti carteggi amorosi del Vate il più importante, probabilmente, fu quello con l’unica donna che il poeta sposò: Maria Hardouin dei duchi di Gallese, impalmata a Roma nel 1883 quando lui aveva vent’anni e lei diciannove.
Un epistolario rimasto inedito a lungo e ora pubblicato – con ampio corredo di note e bibliografia – grazie alle ricerche e al minuzioso lavoro di analisi e riordino condotto da Cecilia Gibellini, storica e critica di letteratura italiana, nota a studenti e studiosi di Vercelli essendo docente di Lettere all’Università del Piemonte Orientale.
Il volume, appena edito da Archinto con il titolo La miglior parte della mia anima – frase contenuta in una missiva del poeta alla consorte vergata nel 1893 -, raccoglie un carteggio di 142 lettere, biglietti, messaggi e telegrammi inviati da D’Annunzio alla Hardouin nel primo decennio del loro rapporto, dal 1883 al ’93: «il nucleo di maggiore interesse, biografico e letterario – spiega la curatrice nell’introduzione – all’interno di un carteggio che si snoda per più di mezzo secolo». Lettere manoscritte, in massima parte non datate, che Gibellini ha pazientemente e filologicamente riordinato. La quasi totalità (137) dei documenti pubblicati fa parte della cosiddetta Raccolta Gaidoni, oggi conservata alla Biblioteca Nazionale Centrale di Roma: lettere che, donate dalla duchessa alla sua dama di compagnia Caterina Cervis, passarono al collezionista bresciano Vitaliano Gaidoni e da questi, pochi anni fa, alla Biblioteca. Le restanti cinque missive sono state recuperate in altre pubblicazioni e nella collezione Staffieri. Insomma, «una vera e propria miniera di dati biografici, psicologici, culturali», che oltretutto «spicca per l’intrinseca qualità letteraria della scrittura».
Sfogliando queste carte «sentiamo solo la voce del poeta; ma attraverso le sue parole emerge anche la figura di Maria. Lui non vorrà mai risposarsi, e anche nel dorato esilio del Vittoriale la vorrà accanto a sé, riservandole sempre un’ospitalità regale e affettuosa nella sua casa e nel suo cuore».
Passione, figli, debiti, fughe e lontananze
Il carteggio inizia nella primavera del 1883, quando il giovane D’Annunzio – terminati gli studi liceali a Prato – da poco più di un anno si era trasferito a Roma ed era stato introdotto da Edoardo Scarfoglio, suo corregionale ed amico, nelle redazioni dei alcuni giornali che si pubblicavano nella capitale. Occupandosi prevalentemente di avvenimenti mondani, ricevimenti e feste dell’aristocrazia, l’ambizioso giornalista non tardò ad entrare nelle grazie della quarantenne duchessa Natalia Hardouin, appassionata di arte e poesia che a Palazzo Altemps teneva un salotto letterario. Qui conobbe la figlia della duchessa, Maria: con lei intrecciò una relazione, strenuamente osteggiata dal padre che non voleva quale genero un parvenu: dopo una fuga d’amore in treno a Firenze – «scaltra congiura» abilmente organizzata dal giovane e adeguatamente pubblicizzata – il matrimonio si rese inevitabile e fu celebrato, a fine luglio, nella cappella di Palazzo Altemps. Nel gennaio 1884 nacque Mario, il figlio del “peccato di maggio”, a cui seguirono – nel giro di tre anni – Gabriellino e Ugo Veniero.
Tre anni «d’inebriante felicità», a cui seguì un graduale distacco «causato, certo, dall’infedeltà di lui» (sono di quel periodo le relazioni del poeta con Olga Ossani e, soprattutto, con Barbara Leoni) «ma anche, e forse ancor di più – osserva Gibellini – dalle difficoltà materiali e dalle deplorevoli vicende legate ai suoi continui indebitamenti»». Un progressivo allontanamento «segnato anche da momenti drammatici, sempre però temperati e superati da un sentimento di affetto e complicità tenacemente vivo in entrambi». Gli eventi precipitarono: nel 1890 la Hardouin tentò il suicidio gettandosi da una finestra, tra il ’91 e il ’93 D’Annunzio si trasferì a Napoli. Nell’ultima, drammatica lettera dell’ottobre 1893 riportata da Gibellini, il poeta che nella città partenopea vive in miseria ed è inseguito dai creditori chiede alla moglie di mandargli «domani per telegrafo 20 lire» per tornare in Abruzzo e colà rifugiarsi. Nel 1899 i coniugi si presentarono al Tribunale di Roma per separarsi legalmente.
Dopo la separazione la Hardouin visse tra Parigi e Roma; nella Ville Lumière – dove frequentava artisti e intellettuali – accolse il marito quando questi, a causa del dissesto della Capponcina, fu costretto a fuggire in Francia per sfuggire ai creditori, e lo introdusse nell’ambiente culturale parigino.
Una presenza discreta al Vittoriale
Nel 1904, spinta dall’anziano padre «sempre fisso in un pensiero di odio e di avversione verso il nostro matrimonio», la Hardouin avviò le pratiche per il divorzio, che però – supplicata dal consorte – non portò mai a termine. Dalla metà degli anni ’20 visse per lunghi periodi a Gardone Riviera, nella Villa Mirabella, inserita nel comprensorio del Vittoriale, la cittadella monumentale in cui il Vate viveva, scriveva e riceveva le numerose amanti. Ebbe il titolo di Principessa di Montenevoso, dopo la nomina di D’Annunzio a questo titolo, salendo così nella scala gerarchica nobiliare, a dispetto delle catastrofiche premonizioni paterne. «Sarà lei – annota Gibellini – a contribuire in maniera decisiva all’impareggiabile impresa decorativa del Vittoriale, adempiendo e talvolta anticipando i desiderata di Gabriele». A Gardone tenne una posizione defilata – mai in contrasto con Luisa Baccara, la vera signora del Vittoriale – e accontentandosi di incontrare il marito solo se da lui richiesta. E una gentildonna che in quegli anni chiese a D’Annunzio se la presenza della moglie a Gardone non lo seccasse o turbasse si sentì rispondere dal poeta, «con un filo d’orgoglio», «Maria è Maria».
Gli ultimi anni
Nel 1938 D’Annunzio morì, lasciando la villa allo Stato italiano; la Hardouin accompagnò il feretro del marito al braccio del Duce, per dovere di vedova ed obbligo di forma. Nel 1945 morirono i figli Gabriellino, malato da tempo, e Ugo Veniero. L’unico figlio superstite fu il primogenito Mario, che morì nel 1964.
Maria Hardouin D’Annunzio – «la figura più enigmatica dell’universo familiare dannunziano», secondo il critico Marziano Guglielminetti – spirò novantenne il 18 gennaio 1954, sedici anni dopo il marito. «Ho sempre paura di essere sola», pare abbia bisbigliato durante l’agonia, nel grande salotto della Mirabella trasformato in camera perché potesse vedere il lago dal letto. Un nastro a lutto venne affisso alla porta della villa, un altro all’uscio della vicina Prioria e cupi rintocchi furono emessi dalla campana all’ingresso. Fu sepolta, accanto ai suoi cani preferiti, nei giardini del Vittoriale.
Dalla filigrana delle lettere di D’Annunzio «nel decennio che vede emergere le sue prime opere di respiro europeo» si staglia, grazie al lavoro di Gibellini, la figura di questa donna «bella, innamorata ma lucida, presto consapevole dei tradimenti di Gabriele eppure sempre dignitosa e generosa». Passione, tenerezza, affetto, turbamenti e preoccupazioni: lettere che testimoniano «il nascere e l’evolversi di quello che fu il rapporto più saldo e duraturo che D’Annunzio intrattenne con una donna da lui amata».
[nella foto: Antonio de La Gandara, Madame Hardouin D’Annunzio, particolare; collezione privata]
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