di Umberto Lorini.
Al di là dei cortei, dei serti d’alloro, delle concioni più o meno in tema, le recenti cerimonie nell’anniversario della Liberazione avrebbero dovuto ricordare, a tutti noi che operiamo nell’informazione, cos’ha significato quel 25 Aprile per la libertà di stampa e di opinione. Ricordarci che c’è stato un ventennio, nel nostro Paese, in cui era vietato dissentire, o comunque esprimersi fuori dalle direttive di regime; chi lo faceva finiva al confino (Pavese, Carlo Levi), o in galera (Gramsci, Pertini) o massacrato di botte (Gobetti, Matteotti). Chi non si uniformava era sì costretto, in quella tetra stagione, all’anonimato e alla stampa clandestina, rischiando comunque – se scoperto – sonore manganellate e coatte bevute di olio di ricino.
Con la Liberazione, l’avvento della democrazia e la nuova Costituzione, ciascuno di noi ha potuto tornare a dire – e a scrivere – quel che pensa. La legge sulla stampa è del ‘48: mentre ancora si rimuovevano le macerie e si iniziava a ricostruire, il Parlamento colse l’importanza di avere una nuova normativa che permettesse a tutti di esprimersi, ma all’interno di un quadro di regole per evitare pericolose derive. L’uscita dal (forzoso) anonimato è stata quindi una conquista civile, un simbolo della recuperata libertà. E i giornali, negli ultimi settant’anni, ne sono la prova. Sui giornali scrivono tutti (i giornalisti, soprattutto, e i lettori, in spazi loro riservati). Cronisti ed editorialisti, tutti si firmano, e ogni giornale – ogni telegiornale, ogni giornale radio – ha un responsabile davanti alla legge. Ognuno può dire la sua, purché – insieme al direttore – firmi e si assuma la responsabilità di ciò che scrive. Se trascende i limiti del codice o della deontologia, ne risponde in tribunale e all’Ordine. Sia chiaro: anche nei giornali ci sono i raccomandati, i servi, i carrieristi senza scrupoli, le mele marce; ma almeno ci sono delle regole, e c’è chi dovrebbe farle rispettare.
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Con l’avvento dei nuovi media, questo sistema che ha più o meno funzionato per decenni ha dovuto (e lo sta facendo tuttora) rinnovarsi. Sono nati giornali on line, nuovi o “figliati” da testate storiche: e per loro esiste un’apposita normativa ricavata da quella dei giornali cartacei, a partire dalla registrazione. Sono poi nati i blog, sorta di “diari in rete” con contenuti vari, che sfruttano – per ora – il vuoto normativo. Sui blog c’è chi posta le foto delle vacanze, chi recensisce dischi e film, chi si dedica a un argomento in particolare (la moda, la cucina, il calcio, la letteratura…). Oltre al blogger (colui che lo anima e lo gestisce), sul blog possono poi comparire commenti di navigatori fissi od occasionali, solitamente filtrati dal blogger.
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I blog sono indubbiamente una grande invenzione; in Italia ne esistono di ottimi, in tutti gli ambiti, anche se in molti casi servono più che altro a soddisfare il narcisismo e l’esibizionismo di chi li tiene. Talvolta possono fungere anche da strumento di informazione, soprattutto in quei Paesi dove la libertà di stampa è assente o fortemente limitata. Nei Paesi liberi i blog divengono però una forma di aberrazione del giornalismo quando, più o meno surrettiziamente, tentano di sovrapporsi o sostituirsi ai media informativi costituiti secondo la legge. Lo divengono quando, nel grande mare del “dare le notizie”, attorno a chi procede osservando le regole di navigazione si muovono come vascelli pirata, o come gommoni impazziti. Finché poi, inevitabilmente, non capita qualche incidente.
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Una caratteristica di alcuni blog (ma che non dipende dallo strumento, bensì da chi lo gestisce) è il ritorno in grande stile dell’anonimato. A Crescentino, soprattutto in questo “caldo” periodo di campagna elettorale, lo si può constatare più che altrove: delle recensioni dei dischi e dei film non importa nulla a nessuno (anche perché, francamente, se ne trovano di migliori altrove), mentre i post sull’argomento “politica locale” attirano frotte di commentatori, che nella quasi totalità sono anonimi o si danno nomi fittizi – alcuni anche molto originali – per non farsi riconoscere. è la fiera dell’anonimato: e in un paese come Crescentino in cui – come e più che altrove – lo sport preferito, anche in politica, è il pettegolezzo, il “dire senza farsi scoprire”, il fare me cui ‘d San Damian: campé la pera e ‘scundi la man, il successo dei blog che accettano i commenti anonimi è assicurato, e le “liti tra comari” anonime diventano la loro principale ragion d’essere. Crescentino è un paese che pullula di vigliacchi che non hanno il coraggio di firmarsi, ma che finalmente hanno trovato nei blog lo strumento per dare sfogo ai loro peggiori istinti, scrivendo lì – in quella zona franca, su quei muri virtuali – cose che non avrebbero mai il coraggio di dire mettendoci la faccia. E i bloggers li assecondano, gongolando (e credendo di fare informazione meglio di altri: come j’asu d’Cavour, c’as laudu da lur) per i grandi numeri raggiunti grazie alla codardia e alla spazzatura.
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L’informazione cartacea, così come la conosciamo, presto non esisterà più; i giornali si stanno già trasformando, a breve saremo tutti (noi già ci siamo) anche sul web, o solo sul web, in varie forme. Ma ciò non significa che l’informazione non debba avere più nessuna regola, e che si confondano giornali e blog, e che qualsiasi blogger possa credersi giornalista, in una notte in cui tutte le vacche sono nere. Da difendere oggi e in futuro, a parere di chi scrive, è soprattutto il principio di responsabilità: è bene che tutti possano dire (scrivere) la loro, ma a una condizione: firmandosi e rendendosi riconoscibili.
Oggi, per nostra fortuna, non c’è più un regime che ci sbatte al gabbio per le opinioni che esprimiamo. I nostri padri e i nostri nonni, nel secolo scorso, hanno combattuto – e molti hanno dato la vita – per regalarci il privilegio della libertà di stampa e di opinione, per far sì che potessimo esprimere le nostre idee mettendoci il nome e la faccia. Ed è per questo che ogni commento anonimo sui blog è uno sputo sulle tombe dei martiri per la libertà. Ovunque, anche a Crescentino.
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