Le primarie hanno dissipato dubbi e speranze. A quelli che restano nel Pd «anche se non condivido la linea di Renzi» chiedete: lavori in assessorato? ti hanno dato qualche posto di sottogoverno? sei in un cda di nomina politica?
di Umberto Lorini
Pur non essendo mai stato iscritto al Pd, e avendo più volte scritto di come il partito si stesse progressivamente personalizzando (altri l’hanno fatto meglio: il sociologo Ilvo Diamanti da tempo parla di PdR, Partito di Renzi), nelle ultime settimane di aprile sono stato subissato – come molti, credo – di inviti di amici e conoscenti ad «andare a votare, domenica 30, per il candidato Orlando»; non tanto per differenze di linea politica rispetto al segretario uscente (Orlando è stato ministro nel Governo Renzi, le sue critiche alla gestione del partito da parte dell’uomo di Rignano sono recentissime), ma perché – riassumo decine di sms, mail, messaggi su Fb – «è l’ultima occasione per salvare il nostro partito».
In effetti nell’ultimo anno, alle assemblee del Pd a cui ho assistito in alcune città del Piemonte (da osservatore: erano pubbliche), ho visto iscritti e simpatizzanti dividersi in tre gruppi: i renziani «senza se e senza ma», insofferenti alla parola “sinistra”; quelli che purtroppo «Renzi ha stravolto il partito, questa non è più casa nostra, siamo costretti ad andarcene» (la linea Bersani – Speranza – Fornaro, diciamo); quelli che invece – almeno, fino alla scorsa settimana – «restiamo nel partito, con forte mal di pancia, per evitare che Renzi se ne appropri».
Alla luce dei risultati delle primarie di ieri, se c’era ancora qualche dubbio ce lo siamo tolto: il Pd (non solo gli organi dirigenti, non solo i gruppi parlamentari, non solo le amministrazioni locali: proprio il “corpo” del partito) è ormai definitivamente diventato il PdR. In Italia c’è una comunità politica di circa un milione e mezzo di persone che si riconosce in quella leadership, e che ha progressivamente emarginato – con una scissione prima, con il voto ora – quanti, in quello stesso partito, non si sono adeguati alla linea di Renzi. Inutile fare dei distinguo: il partito, a tutti i livelli, è ormai a immagine e somiglianza del suo segretario.
Con il 30 aprile 2017, quindi, sono caduti i restanti alibi: piaccia o no, quel partito è diventato un’altra cosa rispetto alla “ditta” che tanti compagni hanno frequentato e animato per decenni. Come nel Psi dopo l’elezione di Craxi, come nel Labour al momento del trionfo di Blair, il tempo del traccheggiamento è finito: il partito è cambiato, bisogna decidere se rimanervi – convintamente, però – o se prender cappello e andare a fare politica altrove (a sinistra c’è fermento, prima o poi qualcosa succederà).
Quindi, compagni che nelle scorse settimane imploravate «venite a votare alle primarie, aiutateci a salvarci da Renzi», poche balle. Se da domani uno mi dice, con espressione contrita, «sono un dissidente: resto nel Pd, nonostante Renzi», gli chiedo subito di dirmi se sta in qualche assessorato, in qualche posto di sottogoverno, in qualche partecipata, in qualche consiglio d’amministrazione di nomina politica. Perché da domani, per i non renziani, l’unica giustificazione per rimanere nel Pd è «tengo famiglia».
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