Crescentino. Il concorso “Conoscere per condividere” promosso dall’Anpi: la ricerca svolta da tre giovani studenti seguiti dall’associazione “Franco Francese”. Nascondigli, irruzioni, agguati e sparatorie.
In occasione del 70° anniversario dell’eccidio dei IX Martiri crescentinesi, fucilati l’8 settembre 1944, la sezione locale dell’Anpi ha organizzato una serie di eventi e manifestazioni che si diluiranno da settembre 2013 a quello del 2014. Il concorso “Conoscere per condividere” era rivolto agli studenti ed ai giovani che sono stati sollecitati a ripensare a quel tragico periodo attraverso narrazioni, testimonianze, racconti, monumenti e lapidi, vie e resoconti.
Tre bambini seguiti dall’associazione culturale “Franco Francese” di San Genuario, una storica frazione di Crescentino, hanno raccolto materiale anche inedito su alcuni personaggi e vicende della storia locale. La presidente Rita Spalasso Francese e Angela Carpegna hanno condotto Niccolò Rigolino, Matteo Tibi e Matteo Zamignan attraverso un percorso che li ha profondamente coinvolti.
Giovanni Ferrarini a San Genuario
San Genuario cronaca: ricordi dal 1940 al 1945 si apre con la biografia di Giovanni Ferrarini “Fracassa”. “Giovanni Ferrarini era nato a Codemondo in provincia di Reggio Emilia nel 1924. Arrivò a San Genuario con la sorella ed il cognato quando era ancora un ragazzino e andò a lavorare come mandriano prima alla cascina Costa e poi alla cascina Badia.
Giovanni Ferrarini, “Fracassa”
Era un ragazzo vivace, non aveva paura del pericolo ed era un gran lavoratore. Durante la seconda guerra mondiale entrò a far parte della 11ª Divisione Patria che operava sulle Colline del Po. Assunse il nome di battaglia “Fracassa” entrando nella 42ª brigata autonoma al comando di “Renato della Ganoia”, al secolo Renato Guaita, il cui vice era il saluggese Vittorio Lusani. Questi ragazzi portavano al collo un fazzoletto blu con su scritto “Toca pa ‘l Monfra”. Sicuramente Fracassa visse e lottò come tutti i suoi compagni per ostacolare l’esercito tedesco diventato nostro nemico. Ma, quando ormai la vittoria era vicina, ecco arrivare il giorno della sua morte. Durante questo periodo, era di stanza a Saluggia un reparto della Guardia Nazionale Repubblicana. Era il 25 aprile 1945 quando i partigiani decisero di attaccare questo reparto e un convoglio di Tedeschi in ritirata sulla linea ferroviaria Torino- Milano. Purtroppo il convoglio era carico di armi pesanti e rispose al fuoco partigiano con più violenza rispetto alle aspettative. Ferrarini fu ferito gravemente, venne portato da alcuni dei suoi compagni all’ospedale di Crescentino dove morì poco dopo. Quel giorno a Saluggia si erano radunati diversi gruppi di partigiani provenienti da varie parti e, a sera, la Guardia Nazionale si arrese. Il funerale di Giovanni Ferrarini ebbe luogo a San Genuario e solo in seguito fu riportato nel suo paese d’origine. Nel lavoro dei giovani sangenuaresi vengono riportate anche le immagini del ricordino e dell’atto di morte, fugando così con dati certi i dubbi e la confusione che aleggiavano sulle date di nascita e decesso: 11 novembre 1925, 25 aprile 1945.
Il partigiano Leo
Un altro capitolo è dedicato al partigiano Leo. “Quando Lorenzo Spalasso aveva 18 anni decise di arruolarsi nella Regia Guardia di Finanza. Dopo un po’ di mesi di addestramento nelle caserme del territorio venne assegnato al 7° plotone di stanza a Pola in Istria. Arrivato l’8 settembre, i Finanzieri, non sapendo più cosa fare, decisero di tornare alle loro case. Centinaia di chilometri da percorrere a piedi, di nascosto, cercando di evitare due nemici: Tedeschi e Slavi. La fame e la stanchezza fecero loro compagnia mentre attraversavano la pianura padano-veneta e man mano sceglievano strade diverse sia per nascondersi meglio sia perché diverse erano le loro mete.
Leo e i compagni in una foto del ’45.
Nel 7° Lorenzo aveva conosciuto Urbano (il partigiano Bill, l’uomo che avrebbe fatto parte del gruppo che nel ‘45 arrestò Mussolini in fuga verso l’estero). Urbano nel suo libro Il compagno Bill ricorda quei momenti di fuga: “…. risento il calpestio di migliaia di scarponi nella nostra disordinata e dolorosa ritirata dalla Jugoslavia, sfuggendo alla spietata caccia tedesca e alla vendetta slava”. Lorenzo, giunto finalmente a casa, per non mettere in difficoltà la famiglia in caso di intervento dei Repubblichini, poiché non intendeva ritornare alle armi con il Duce, raggiunse i gruppi partigiani sulle colline del Monferrato e adottò il nome di “Leo”. Di quel periodo della sua vita non parlò spesso ma un giorno raccontò di una battaglia in un cimitero. Dal congedo da partigiano, rilasciato dal Comitato di Liberazione Nazionale, apprendiamo che fece parte della XI divisione, 42ª Brigata Autonoma “Vittorio Lusani”, che consegnò il 13 maggio 1945 un moschetto e due caricatori e che il suo comandante era Renato Guaita. Dal racconto di un anziano del paese abbiamo sentito dire che Leo era stato uno dei ragazzi che aveva accompagnato il Ferrarini all’ospedale e ciò può essere vero visti i punti in comune: la stessa divisione, lo stesso comandante, lo stesso fazzoletto blu come appare nelle foto di Leo con i suoi compagni. Sulla foto abbiamo notato che i ragazzi indossavano gli stessi calzini e così ci hanno spiegato che probabilmente i calzini erano parte dei pacchi che Americani e Inglesi lanciavano con i paracadute sulle colline con armi, abbigliamento e altro che poteva servire ai partigiani”.
La perquisizione a San Genuario
La guerra non risparmiò neanche le frazioni. “Anche San Genuario ebbe esperienze di lotta fratricida nel periodo della resistenza, cioè dopo l’8 settembre 1943. Sulla facciata di Palazzo Ariotti si apriva l’osteria gestita dalla famiglia Alessio. Il papà, Berto, aderiva alla Resistenza aiutando e proteggendo i giovani partigiani attivi in zona. È curioso notare come nello stesso palazzo avesse sede “La casa del Fascio” (ancora oggi si possono vedere alla ringhiera del balcone gli anelli che sostenevano la bandiera.). Un episodio particolare è quello della perquisizione effettuata dai repubblichini o, per essere precisi, dalla Milizia della Repubblica di Salò, che, giunti in paese all’improvviso, probabilmente dopo una soffiata, subito fecero uscire gli abitanti del palazzo e li radunarono all’aperto, ovviamente guardati a vista con le armi. I repubblichini scesero immediatamente nel piano interrato, dove trovarono una borsa di bombe a mano nella cantina dell’osteria. Presero il signor Berto e lo portarono con loro a Vercelli dove fu picchiato e maltrattato. Per fortuna poté fare ritorno a casa. I repubblichini cercavano però anche delle persone. Si dice che due uomini fossero riusciti a nascondersi tra le enormi travi e le tegole del tetto o, all’esterno, sui lati del grande abbaino del palazzo. Nessuno ricorda con esattezza: fatto sta che i repubblichini non trovarono nessuno ma verso sera due uomini coperti da un impermeabile furono visti allontanarsi lungo la strada che va al cimitero e lasciare il paese”.
I prigionieri inglesi
“Durante la guerra i prigionieri inglesi venivano mandati a lavorare nelle cascine perché tutti gli uomini che avevano un’età buona per lavorare erano stati chiamati alle armi. Anche nel nostro territorio c’erano alcuni di questi Inglesi che dopo l’8 settembre del 1943 sono scappati dalla loro prigionia. Quattro di loro, fuggiti dal Dosso dei Bruchi si sono rifugiati a San Genuario nelle cascine della Costa. Due, Arthur e Ron, dapprima si sono imboscati nella cascina Costa del Giancarlo Busso, durante la giornata si nascondevano nei campi e la sera si rifugiavano nei fienili. Nonostante queste precauzioni, ad un certo punto, la situazione divenne troppo pericolosa per la famiglia che li ospitava. Allora alcuni paesani li hanno accompagnati in aperta campagna ai Prati Cobiacci, in una zona lontana dalle strade e dove, intorno alle risorgive, crescevano canne e cespugli. Lì i due hanno costruito una baracca nascosta in mezzo alla vegetazione. Alcune ragazze del paese portavano loro del cibo e così Arthur e Ron passarono i giorni fino alla fine della guerra quando poterono tornare sani e salvi al loro paese. Finché l’età glielo consentì tornarono di tanto in tanto a San Genuario per far visita a quelli che li avevano aiutati. Una volta arrivarono addirittura in moto!”. Carlo Irico e Angela Carpegna vivono a San Genuario ed hanno raccontato i loro ricordi ai tre bambini, suscitando anche stupore per quanto fosse diversa la vita dei loro coetanei all’epoca e soprattutto durante il periodo bellico: Carlo corre per avvertire lo zio di nascondersi “ma i Tedeschi arrivarono all’angolo prima che giungessi io; mi hanno fermato e mi hanno messo faccia al muro a mani alzate. Avevo circa 10 anni e quello che mi ha colpito di più e mi ha spaventato è che il loro comandante ne avrà avuto 15 o 16”.
Silvia Baratto
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